Mentre i forestieri ritornavano a trastullarsi al fresco, giocavano a carte sotto il pero dei Valentini e, nelle ore più roventi, cercavano refrigerio nelle acque del Marecchia, nei campi si replicavano i riti della fienagione e della mietitura.

 Negli anni di cui si parlava nel precedente capitolo, era stato ormai abbandonato del tutto il lavoro manuale e con il bestiame da traino e tutte le faccende venivano ormai svolte con i trattori.

Egildo era sceso da pochi anni verso Rofelle, dall’abitato ormai pressoché abbandonato di Montebotolino avendo ereditato i campi della moglie. Gli agri avuti in lascito erano sicuramente più comodi e produttivi rispetto ai minuti appezzamenti che dalle pendici del Monte scendevano verso il Rio, affluente del Marecchia.

 A Montebotolino la sussistenza di un lavoratore della terra non era facile e occorreva molto genio per destreggiarsi tra tante difficoltà che la natura del territorio arrecava.

La comunità montebotolinese si era costituita a contado autosufficiente dove tutto si produceva e ci si scambiava l'un l'altro.

C’era chi si adoperava come calzolaio, chi come falegname ed anche come stagnino. Per il pane ed i dolci veniva adoperato il forno in comune che si trovava in un angolo della piazza centrale. Quel poco che mancava si acquistava dai venditori ambulanti che rimontavano la ribelle mulattiera per proseguire da Rofelle verso quel piccolo regno.

Fino alla metà degli anni ’60 a Montebotolino c’era anche la scuola elementare e l’insegnante, obbligata a risiedere sul posto, alloggiava presso la famiglia dei Parrini. L’educatrice diventava parte integrante della collettività condividendone problematiche, gioie e dolori. Nelle lunghe serate invernali ci si trastullava ora destreggiando le carte, ora imbastendo genuini passatempi o semplicemente narrando storie di paura o di guerra.

Quando la piccola scuola fu chiusa, si spense una parte di storia del contado bastante a sé stesso e nuove questioni occuparono le menti degli ingegnosi montebotolinesi.

I ragazzi dovevano recarsi a scuola a Rofelle percorrendo più di tre chilometri lungo la mulattiera: ciò risultava relativamente facile nella bella stagione, ma si complicava quando pioveva e soprattutto durante il lungo e imbiancato inverno.

 Problemi più attuali iniziarono ad affacciarsi alle coscienze: la strada carrabile, il possesso di un’auto, ma anche il possesso di nuovi strumenti per alleviare le fatiche in agricoltura e dilatare i profitti.

Gildo, che aveva sperimentato per un certo periodo il mestiere di camionista, portò una ventata innovatrice quando propose ad alcuni conterranei l’acquisto collettivo di un trattore. L’idea era quella di prestare opera presso quei coloni sprovvisti dei moderni mezzi agricoli.

Pochi anni dopo il lungimirante promotore lasciò la sua abitazione di Montebotolino per scendere al Castello diventando “il trattorista” di buona parte dei coloni di Rofelle, compresa la mia famiglia.

Gildo si procurò un’attrezzatura sempre più completa per poter provvedere alle necessità di una azienda agricola tra cui anche una specie di forca prensile che serviva per prelevare il letame dalla concimaia.

Da quel momento i lavori agricoli furono scanditi dalla presenza di Gildo nelle nostre case.

L’aspetto gastronomico non andava certamente sottovalutato. Gli uomini che, al seguito del motorista, aiutavano nei campi avevano necessità di cibi nutrienti. Sia alla mamma che a me piaceva variare il menù in modo da rendere apprezzabili i momenti di congedo dal lavoro.

-“Preparate da mangiare, che stanno arrivando gli amici di Girolamo!” -A queste parole di mio cugino Stefano che trascorreva buona parte dell’estate da noi, io e mia mamma comprendevamo che stava per avvicinarsi il trattore con il carico del foraggio, oppure le voci degli uomini si facevano sempre più intense, segno della loro vicinanza a casa.

La manovalanza reciproca si realizzava soprattutto in estate in occasione della fienagione e della mietitura. Tuttavia Gildo frequentava la nostra casa in tutti i periodi dell’anno: in occasione dell’aratura e della semina, della sistemazione del letame nei campi e del trasporto del legname.

Ormai i mezzi meccanici erano diventati talmente indispensabili che niente si regolava se Gildo non accordava la sua disponibilità. Per lui non era senz’altro semplice coordinare il lavoro nella sua azienda e gli impegni che ormai aveva contratto verso i terzi, per questo si faceva sostenere da alcune persone che avessero dimestichezza con i mezzi agricoli.

 Si trattava di giovani che lavoravano per lui nella azienda di sua proprietà o da terzi, a seconda delle esigenze. Tra questi ricordo soprattutto Marcello e Domenico.

 Di Marcello ho solo ricordi molto vaghi forse perché il suo periodo di permanenza alle deferenze del nostro macchinista corrisponde con gli anni della mia prima fanciullezza, o forse perché in quel periodo si ricorreva di meno all’uso dei mezzi meccanici.

Pur non potendomi riallacciare a reminiscenze precise del suo operato, ricordo con lucidità di essermi affezionata tantissimo a quel ragazzo che probabilmente intesseva rapporti con la nostra famiglia un po’ in tutti i periodi dell’anno.

A quei tempi le occupazioni di campagna seguivano ancora dei ritmi precisi che coinvolgevano l’intero nucleo familiare.

Sistemate le messi nei granai, a metà agosto si riprendeva ad arare la terra considerando già il raccolto dell’anno successivo. La scelta dei fondi da dissodare veniva compiuta con arguzia secondo l’ancestrale criterio della rotazione delle colture.

 Altrettanto ponderata era la scelta delle semenze: si sceglievano i chicchi più grossi e più puliti. La semina avveniva di solito a settembre dopo aver messo in serbo le fascine.

Prima che le fronde imbiondissero, si rinnovava il rito della preparazione delle fascine soprattutto per gli ovini. Si trattava di fasci di rami che venivano legati in modo che le foglie rimanessero tutte alla stessa estremità.

Le fascine venivano lasciate per qualche tempo nel campo sotto il sole settembrino per far essiccare bene la foglia.

I semplici fasci di rami venivano fissati con sistemi rudimentale alle pareti della stalla degli ovini che brucavano con piacere le foglie secche.  Il ritrovato permetteva di tener in deposito una maggiore quantità di foraggio giacché l’asprezza del clima invernale poteva durare anche fino ad aprile.

 L’inizio dell’aratura corrispondeva con l’accorciarsi delle giornate.

Mi ricordo di aver vissuto con una certa ansia il fatto che si continuasse a lavorare anche di notte, a volte fino oltre le ventidue.  Sorvegliavo il rumore e quando il motore si arrestava iniziavo a stare in pena per quella persona che, nel buio novello, doveva attraversare strade deserte, torrenti e boschi per consegnarsi al proprio alloggio.

Ma quelle paure erano solo mie, la gente della terra ne era estranea perché la campagna era il suo mondo con la luce e senza.

Domenico in particolare era sicuramente abituato ai lunghi viaggi per montagne e boschi sia di giorno che di notte.

Nato nel Comune di Casteldelci da mamma rofellana, era avvezzo fin da ragazzetto ad attraversare quei monti del Poggio dei Tre Vescovi per giungere a Rofelle dai nonni prima e dagli zii poi.

Si partiva all’alba per risalire verso quel Termine così noto e ridiscendere verso Rofelle attraversando la strada della Dogana. Piera con i figli maggiori Domenico e Roberto non mancava mai di venire a far visita alla mamma ed ai fratelli Antonio e Sebastiano.

Scendendo per la mulattiera, si arrivava al Turiolo di prima mattina giusto in tempo per una rifocillante colazione che mia mamma non mancava mai di elargire. Al ritorno si ripeteva il solito rito di una gradita merenda in casa Bellucci prima di riprendere l’arduo cammino.

Lo zio Renzo a volte accompagnava quegli abituali frequentatori nel percorso più scosceso aiutandoli a portare quel cesto con i miseri prodotti alimentari comparati alla bottega di Gosto e alcune forme di formaggio che la generosa abitante del Turiolo donava con dolcezza infinità a quella famiglia che la sorte non aveva certamente favorito.

Il podere della Bigottina era di limitate dimensioni per la sopravvivenza di un nucleo famigliare di quattro persone, inoltre l’utile doveva essere diviso con Tullio, cognato di Piera, che viveva nella stessa casa con la moglie e due figli.

Così non appena Domenico fu abbastanza cresciuto iniziò a cercare occupazione nelle aziende agricole avendo modo di esercitarsi nella guida delle nuove apparecchiature usate in agricoltura.

 Gildo aveva necessità di una persona che lo aiutasse nel lavoro agricolo sia nella propria azienda che nelle prestazioni d’opera ai coloni rofellani, quindi lo chiamò alle sue dipendenze.

 Il giovane divenne parte integrante della comunità di Rofelle e i suoi coetanei lo avevano accolto di buon grado nella loro comitiva essendo un compagno brillante, pronto alla battuta e bonario verso qualsiasi tipo di canzonatura.

Il vecchio 124 color caffelatte diventava il mezzo caldeggiato per uscire il sabato sera, per andare a ballare alle Balze o a Ca’Morlano.

A Balze di Verghereto era da poco stata aperta “La Vuelta”, una minuscola discoteca che aveva assunto più che altro un carattere familiare.  Alla Vuelta ogni sabato si ritrovavano le stesse persone che ben si conoscevano perché avevano tra loro anche rapporti di lavoro o di scambi di cordialità tra i congiunti.

A quei tempi in discoteca si arrivava verso le 21,00 per ripartire al massimo alle 2 di notte.

 La musica non era molto assordante ed anche le luci psichedeliche quasi insignificanti e ravvivavano solo lo spazio della pista da ballo. Si poteva tranquillamente sostare nei divanetti per ore, dialogare, amoreggiare e accordare qualche innocente bacio nell’oscurità.

Alla Vuelta Domenico aveva modo di ritrovare il fratello Roberto e gli amici della zona di Casteldelci.  La sua presenza caldeggiava le amicizie tra i ragazzi delle due zone, come d’altra parte era stato tanti anni prima per la generazione precedente.

Tanti anni indietro i luoghi d’incontro erano soprattutto i prati che, a monte della vallata di Rofelle, dividevano il versante toscano da quello marchigiano, oppure le misere case che acconsentivano genuine feste da ballo...fatto sta che la consueta frequentazione tra le creature dei due versanti continuava a resistere nel tempo.

La stessa catena di affetti sussisteva con la zona di Ponte Messa e Pennabilli. Anche nella sala da ballo di Ca’Morlano si ritrovavano sempre le stesse persone: giovani e anziani in una sorta di festa da ballo familiare in cui non si bada all’età quanto alla contentezza dello stare insieme.

 Allora anche all’età di diciotto-venti anni si era felici con poco: un viaggio in un 124 malandato, le risate tra amici e quattro salti nella pista da ballo bastavano per riempire una serata.

 Non si partiva certamente con le tasche piene di quattrini, era già tanto che i genitori avessero accordato quella serata fuori casa!

 Non avendo ingenti disponibilità di denaro, non ci si poteva permettere neanche di avvicinarsi molto ai superalcolici.

Vero era che i ragazzi della zona marchigiana apprezzavano la scioltezza e l’inibizione che poteva trasmettere un bicchiere di troppo, si trattava di un ereditario rito della gente di campagna per esprimere l’esultanza di essersi ritrovati. Le ubriacature non erano poi così frequenti durante quelle serate fuori casa.

Insomma le serate in compagnia di Domenico alla “Vuelta”, a Ca’ Morlano o semplicemente durante le veglie nelle case private erano sempre molto gradevoli.  Domenico non si mostrava mai contrariato nemmeno quando lo interpellavano con l’epiteto strano che gli era stato assegnato in una serata in cui rivolgendosi agli amici con il suo solito dialetto romagnolo-marchigiano aveva detto: “Ragazzi a n’ce sparpagliame!”.

Da quella sera l’affabile compagno era diventato per tutti “Sparpagliame”.

 

In quegli anni ’70 si verificarono dei mutamenti nei ritmi di vita dei coloni di Rofelle che, per un motivo o per l’altro, si staccarono pressoché definitivamente dalla subordinazione alla disponibilità di Gildo.

 I più anziani liquidarono il bestiame e dettero i campi in affitto oppure in custodia temporanea per il foraggio o per il pascolo. Altre famiglie, tra le quali la nostra, cercarono di attrezzarsi per conto proprio acquistando a poco a poco gli attrezzi agricoli necessari.

 Nuove esigenze emergevano, gli orizzonti si stavano estendendo per cui non diventava alquanto fuori luogo vivere nelle nostre adorate catapecchie.  

Quelle adorate stamberghe erano sprovviste di servizi igienici, gli infissi erano  logori a tal punto da far penetrare acqua e neve, i soppalchi erano popolati di topi che la notte si rincorrevano da una parte all’altra producendo baccani del tutto particolari.

Anche i ricoveri degli armenti erano in pessime condizioni, si sentiva parlare di strutture moderne, senz’altro più pratiche per l’accudimento del bestiame. C’era necessità di denaro e ci si rendeva conto che non ci si poteva permettere più di retribuire un trattorista per ogni esigenza

Fu così che per il perspicace trattorista il lavoro si ridusse notevolmente tanto da non avere più necessità dell’amabile assistente che fu costretto a trovare occupazione altrove.

Il distacco da Domenico segnò quasi del tutto la fine di un senso comunitario di vivere il lavoro dei campi.

Quel concetto di un corpo sociale che lavora e vive insieme gli eventi più importanti del cammino umano resterà per sempre impressa nel mio animo plasmando il mio modo di essere.

Non si può negare che si è eclissata molto quella percezione collettività che ci portava a condividere la maggior parte delle esperienze quotidiane, intense consuetudini del mondo contadino sono state assorbite dalla società globale che anela all’appiattimento. Tuttavia posso notare che alcuni principi fondamentali sono rimasti immutati: far visita ad un anziano, ad un ammalato, stare vicino ad una persona che sta per morire, partecipare ad un funerale. Ho ancora nelle orecchie le parole di una conoscente che, giorni fa, in occasione di un funerale ha sostenuto: “Quando siamo in così pochi, ognuno che muore è una piccola parte di noi stessi che se ne va!”

 

 

 

 

  • Mentre i forestieri ritornavano a trastullarsi al fresco, giocavano a carte sotto il pero dei Valentini e, nelle ore più roventi, cercavano refrigerio nelle acque del Marecchia, nei campi si replicavano i riti della fienagione e della mietitura.
  •  Negli anni di cui si parlava nel precedente capitolo, era stato ormai abbandonato del tutto il lavoro manuale e con il bestiame da traino e tutte le faccende venivano ormai svolte con i trattori.
  • Egildo era sceso da pochi anni verso Rofelle, dall’abitato ormai pressoché abbandonato di Montebotolino avendo ereditato i campi della moglie. Gli agri avuti in lascito erano sicuramente più comodi e produttivi rispetto ai minuti appezzamenti che dalle pendici del Monte scendevano verso il Rio, affluente del Marecchia.
  •  A Montebotolino la sussistenza di un lavoratore della terra non era facile e occorreva molto genio per destreggiarsi tra tante difficoltà che la natura del territorio arrecava.
  • La comunità montebotolinese si era costituita a contado autosufficiente dove tutto si produceva e ci si scambiava l'un l'altro.
  • C’era chi si adoperava come calzolaio, chi come falegname ed anche come stagnino. Per il pane ed i dolci veniva adoperato il forno in comune che si trovava in un angolo della piazza centrale. Quel poco che mancava si acquistava dai venditori ambulanti che rimontavano la ribelle mulattiera per proseguire da Rofelle verso quel piccolo regno.
  • Fino alla metà degli anni ’60 a Montebotolino c’era anche la scuola elementare e l’insegnante, obbligata a risiedere sul posto, alloggiava presso la famiglia dei Parrini. L’educatrice diventava parte integrante della collettività condividendone problematiche, gioie e dolori. Nelle lunghe serate invernali ci si trastullava ora destreggiando le carte, ora imbastendo genuini passatempi o semplicemente narrando storie di paura o di guerra.
  • Quando la piccola scuola fu chiusa, si spense una parte di storia del contado bastante a sé stesso e nuove questioni occuparono le menti degli ingegnosi montebotolinesi.
  • I ragazzi dovevano recarsi a scuola a Rofelle percorrendo più di tre chilometri lungo la mulattiera: ciò risultava relativamente facile nella bella stagione, ma si complicava quando pioveva e soprattutto durante il lungo e imbiancato inverno.
  •  Problemi più attuali iniziarono ad affacciarsi alle coscienze: la strada carrabile, il possesso di un’auto, ma anche il possesso di nuovi strumenti per alleviare le fatiche in agricoltura e dilatare i profitti.
  • Gildo, che aveva sperimentato per un certo periodo il mestiere di camionista, portò una ventata innovatrice quando propose ad alcuni conterranei l’acquisto collettivo di un trattore. L’idea era quella di prestare opera presso quei coloni sprovvisti dei moderni mezzi agricoli.
  • Pochi anni dopo il lungimirante promotore lasciò la sua abitazione di Montebotolino per scendere al Castello diventando “il trattorista” di buona parte dei coloni di Rofelle, compresa la mia famiglia.
  • Gildo si procurò un’attrezzatura sempre più completa per poter provvedere alle necessità di una azienda agricola tra cui anche una specie di forca prensile che serviva per prelevare il letame dalla concimaia.
  • Da quel momento i lavori agricoli furono scanditi dalla presenza di Gildo nelle nostre case.
  • L’aspetto gastronomico non andava certamente sottovalutato. Gli uomini che, al seguito del motorista, aiutavano nei campi avevano necessità di cibi nutrienti. Sia alla mamma che a me piaceva variare il menù in modo da rendere apprezzabili i momenti di congedo dal lavoro.
  • -“Preparate da mangiare, che stanno arrivando gli amici di Girolamo!” -A queste parole di mio cugino Stefano che trascorreva buona parte dell’estate da noi, io e mia mamma comprendevamo che stava per avvicinarsi il trattore con il carico del foraggio, oppure le voci degli uomini si facevano sempre più intense, segno della loro vicinanza a casa.
  • La manovalanza reciproca si realizzava soprattutto in estate in occasione della fienagione e della mietitura. Tuttavia Gildo frequentava la nostra casa in tutti i periodi dell’anno: in occasione dell’aratura e della semina, della sistemazione del letame nei campi e del trasporto del legname.
  • Ormai i mezzi meccanici erano diventati talmente indispensabili che niente si regolava se Gildo non accordava la sua disponibilità. Per lui non era senz’altro semplice coordinare il lavoro nella sua azienda e gli impegni che ormai aveva contratto verso i terzi, per questo si faceva sostenere da alcune persone che avessero dimestichezza con i mezzi agricoli.
  •  Si trattava di giovani che lavoravano per lui nella azienda di sua proprietà o da terzi, a seconda delle esigenze. Tra questi ricordo soprattutto Marcello e Domenico.
  •  Di Marcello ho solo ricordi molto vaghi forse perché il suo periodo di permanenza alle deferenze del nostro macchinista corrisponde con gli anni della mia prima fanciullezza, o forse perché in quel periodo si ricorreva di meno all’uso dei mezzi meccanici.